Piero Taiti: Un dialogo fondato sul valore della coscienza


Piero Taiti

La corale partecipazione dei presenti ha prodotto, credo in tutti, la profonda soddisfazione per aver provato la sensazione di aver scoperto un valore di fondo, un punto archimedico su cui fondare una visione condivisa del nostro modo di pensare e soprattutto di agire: noi (e quindi tutti gli altri, anche non presenti) siamo come portatori di un valore indisponibile che è la libera coscienza di ognuno, valore degno quindi di un rispetto connaturato alla nostra stessa natura umana.
Penso che abbiamo scavato nelle nostre teste e nei nostri cuori, con grande libertà e soprattutto ciascuno di noi con profonda sincerità, trovando una sostanziale motivazione del nostro “dialogo” e forse un ancoraggio comune alle nostre azioni ed esperienze: oltre a tutti i valori che abbiamo riscoperto insieme, in questi anni di “lavoro”, abbiamo questa volta convenuto che se di fronte ad ogni nostra azione o pensiero ci sono degli uomini, ebbene allora dobbiamo aver rispetto prima di tutto del loro essere anche “coscienza”.
Tanto più abbiamo sentito insieme questo pensiero, in quanto ciascuno di noi ha scoperto nell’altro una persona con la propria coscienza; abbiamo avuto l’esperienza della coscienza degli altri; prima di noi, ma poi di tutti gli altri.
Qualcuno penserà che questo lo sapevamo anche prima - e forse è anche vero - forse quelli che si sono impegnati si sono sempre mossi con questo profondo convincimento, ma questa volta di diverso c’è stato che abbiamo collettivamente fatto esperienza di questo valore: l'abbiamo trasformato da concetto razionale, affermato teoreticamente, in scoperta di vita vissuta, in valore acquisito concreto e relazionale.
Ci è stato poi comunicato che Chiara Lubich aveva già affermato che il futuro del nostro dialogo sarebbe stato fondato sul valore della coscienza o non vi sarebbe stato un futuro.
Questa comunicazione ci è sembrata una sfida accattivante. Per quelli del gruppo “con convinzioni diverse”, è stato forse più facile: fin dal primo incontro Chiara Lubich ci ha identificato come un insieme di persone, che non avendo a fondamento della loro vita valori religiosi, si identificavano, pur nelle loro diverse esperienze e motivazioni, con una caratteristica: nelle vicende della vita si conformano (o cercano di conformarsi ) all’ascolto della “voce interiore”, all’ascolto della propria coscienza.
E’ stato un riconoscimento che abbiamo apprezzato: di fronte a tante ostentazioni di Verità, che ci vengono sbatacchiate in faccia in modo obbligante ed indiscutibile, che a volte non comprendiamo o che non condividiamo, c’è stata l’espressione della stima per il nostro desiderio insaziabile di ricerca, l’umano rispetto per chi non ha certezze da erigere, soprattutto perché proveniente da una persona che rivendica sì il rispetto della sua fede, ma ne fa un momento di comunità e non di divisione.
Certo la fiducia dimostrata nella “nostra” coscienza ci ha posto anche molti interrogativi: quanto sia giustificata per noi che facciamo parte di questo gruppo, quanto sia giustificata per tutti coloro che genericamente si dicono “laici”, in quanto non fanno riferimento a valori religiosi, quanto e come poi questo rispetto alla coscienza coinvolga anche tutti coloro che non hanno riferimenti di tipo religioso, ma ancor di più coloro che orientano la loro vita su valori di fede.
Abbiamo capito che per dare qualche risposta a qualcuna di queste domande, abbiamo parlato fra noi per anni, forse ancora con qualche prudenziale reticenza, per non dilacerare il gruppo nelle discussioni ideologiche, prima che si fosse consolidato in un rapporto umano forte e reciproco, e individuando valori che ci univano e non ci separavano.
Ma alla fine abbiamo anche dovuto cercare, al di là del rapporto di amicizia che si è nel frattempo creato, anche le motivazioni per stare insieme nonostante i pensieri che ci dividono ancora, ma che soprattutto, al di fuori di questo gruppo, dividono gli uomini fra loro: poiché ci siamo posti sempre il problema che non potevamo fra noi creare una comunità pensante e vivente, e poi, tornando a casa propria, ciascuno potesse schizofrenicamente uscire da un mondo e rientrare in un altro, che in larga misura non ci rispecchia.
Lo straordinario è stato che, a questo punto del nostro percorso, non erano più i fondamenti religiosi, che separavano o univano ciascuno di noi, fra noi ed il resto del proprio mondo di vita, ma era un diverso modo di ragionare sull’umanità che stava fra la nostra piccola comunità e tutto quello che ci circonda: io credo di poter testimoniare questa mia esperienza e forse quella di tanti “laici”, ma credo anche che qualcosa di simile sia successo per chi condivideva valori di fede e perfino per chi operava dentro il Movimento dei Focolari.
Forse, nella nostra ricerca sulla coscienza e sul rispetto per ogni individuo che ne è titolare, abbiamo scoperto ciò che ci unisce fra noi e ciò che ci differenzia nel mondo, ma questo non l’abbiamo vissuto contemporaneamente come un motivo di chiusura, bensì come una necessità di apertura, presa di coscienza che, se abbiamo scoperto un piccolo grande tesoro della nostra esperienza, non possiamo non condividerlo con tanti altri, anzi, quanto più ne partecipano, tanto più ne possediamo: in fondo questo sentimento ci ha riempito di gioia.
A volte succede, nelle nostre riflessioni, di sentir dire a qualcuno di noi che non è importante fare tanti ragionamenti, ma vogliamo vedere e sentire l’esperienza dei fatti, che soddisfa il nostro desiderio di concretezza, a volte la nostra cupidigia di non essere come quei filosofi che contemplano il mondo, bensì come quelli che – secondo la ben nota undicesima tesi di Marx – operano per trasformarlo.
Non v’e alcun dubbio che se ciascuno di noi non fosse anche operativo, probabilmente saremmo, secondo la metafora scritturale, bronzi risuonanti di nulla, produttori di un vuoto chiacchiericcio, di fronte a mille urgenze che stanno dinanzi ai nostri occhi.
Ma questa volta riflettendo, abbiamo illuminato di nuove consapevolezze la nostra azione quotidiana: se fare è un imperativo, come fare è un compito ben più arduo, che si somma, non si sottrae al primo. Dopo la scoperta dentro ciascuno di noi di una coscienza interiore (voce di Dio o profonda convinzione morale), ora vediamo chiaramente che quello che ci sta di fronte non è una persona che chiede alla nostra “sensibilità morale”.
Siamo noi piuttosto in debito verso quella persona, proprio in nome di quei valori morali che riteniamo di professare e almeno in parte possedere.
Il senso profondo del nostro fare non è la nostra “vincenziana” bontà verso gli altri, non è qualcosa di buono o di bene che sopravanza dentro di noi, che possiamo distribuire agli altri: è la condivisione del concetto che ogni altro individuo esprime, bene o male, la propria coscienza individuale (e da questo sentimento nascono i valori di solidarietà, di uguaglianza, di fratellanza) che ci obbliga, ci mette nella condizione di dover soccorrere con ogni mezzo chi si trova nelle difficoltà della vita, cominciando da quelli che ci stanno più vicino, fino a quelli che, solo geograficamente, sono più lontano da noi : con un senso di “compassione” ( nell’accezione buddista del termine ) che ci consente di “essere” prima di tutto noi “nel bisogno”, e poi quindi di “fare”.
A questo proposito, mi è venuto in mente di citare l’episodio scritturale dell’adultera: la palese e gravissima violazione della legge mosaica la condannerebbe, ma per Gesù, prima della legge, viene la comprensione per la persona: nel linguaggio moderno si potrebbe aridamente interpretare come la distinzione fra l’errore e l’errante, anche se l’episodio evangelico mi sembra molto più pregno di valori antropologici e di pietas.
Nessuno ha tuttavia dimenticato che esiste una dimensione pubblica della giustizia, della quale nessuna comunità organizzata può fare a meno : anzi la propensione individuale a questi modi di sentire, ci fa misurare tutta l’insufficienza di quella “giustizia distributiva”, che secondo il grande giurista statunitense John Rawls è una componente essenziale di qualsiasi teoria (e non solo) della giustizia.
Qualcuno forse lo ha sempre saputo, o forse meglio ha sentito questo interiore impulso ad agire con queste motivazioni, ma oggi abbiamo collettivamente realizzato che non è tanto il valore materiale delle nostre opere o delle nostre possibilità, quanto il dovere assoluto che noi sentiamo, che qualsiasi cosa facciamo dobbiamo sempre rispettare l’essere etico (la “coscienza morale”), e quindi la persona del ricevente; e questo non lo richiede l’ideologia o la fede, ma l’aver dato un contenuto valoriale umano al termine di fratellanza.
Piero Taiti



Dal Corso di approfondimento sul tema della Coscienza svoltosi presso il Centro Mariapoli di Castelgandolfo a cura del centro del dialogo con persone di convinzioni non religiose del Movimento dei Focolari.

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