Sindrome di Down:"Come spiegare ai bambini la diversità" di Martina Fuga
In un colloquio con gli insegnanti di
Emma ci siamo chiesti come spiegare ai compagni della sindrome di Down.
Dal primo giorno gli insegnati hanno cercato di trasmettere il concetto che Emma non è una bambina diversa dagli altri,
ma abbiamo capito che non funziona. Come non funziona? Emma non è
una bambina diversa dagli altri, perché non funziona?
Non funziona perché i bambini sono più
intelligenti di noi e vedono che è diversa: è diversa perché parla in modo
strano, perché ha dei tratti somatici particolari, e perché fa più fatica di
loro in moltissime cose, quasi tutte, infine è diversa perché viene gestita
dagli insegnanti in modo diverso. I compagni lo dicono chiaramente: “Ci dici che è come noi, poi tu la tratti in modo diverso:
hai più pazienza, quando combina qualche pasticcio le dai tre avvertimenti
invece di uno prima di metterle una nota o darle una punizione, quando ci fa un
dispetto dobbiamo capire, ci può mettere più tempo a mangiare o a tornare dal
bagno…” Più gli diciamo che è uguale a loro più si allunga la lista delle
lamentele, più cresce il senso d’ingiustizia più si allontana il momento in cui
Emma entrerà davvero in relazione con i suoi nuovi compagni.
Emma è una ragazzina come tutti gli
altri? No, Emma è una ragazzina, ma è diversa. Emma è
Emma e basta, come direbbe la mia amica Milena, che ci è arrivata
molto prima di me. Lo è, come anche Cesare è Cesare e basta, così come Giulia,
Paolo, Francesco, Andrea, Parth, Tuna, Angelina…
Sembra
semplice ma non lo è, negare la sua diversità è una delle prime cose che ho
fatto quando era piccola: “Emma è come tutti gli altri…”, lo ripetevo come un
mantra rassicurante. In fondo
allora non mi sbagliavo quando era piccola era davvero come tutti gli altri e
forse anche ai compagni era giusto dire così, perché in fondo le differenze
erano impercettibili, ma poi si cresce e nel crescere
si definiscono le competenze, le debolezze, le identità. E’ giunto
il momento di guardare in faccia la diversità.
Mi perdonino i neo genitori che stanno vivendo questa fase. Non è una critica nei loro confronti, l’ho passata anch’io ed è giusto che ogni fase venga vissuta nella sua pienezza. Ma davvero credo che ora sia tutto diverso.
Non mi
sento più di dire che Emma non è diversa. Mi sento di dire che essere diversi è
normale, che essere diversi ha in sé qualcosa di potente, perché essere diversi
è quello che ci definisce e ci rende unici. E questa diversità va cercata,
scoperta, valorizzata, amata.
Quello che definisce chi è Emma o un
bambino con disabilità non è quello che riesce a fare rispetto ad un coetaneo o
rispetto ad un programma scolastico, ma è quello che lei è. Che ne sarebbe
allora delle persone con disabilità più pesanti? I bambini che non
parlano, i ragazzi che non riescono a raggiungere le autonomie, i bambini
che non possono andare in una scuola inclusiva? Non sono forse bambini come
tutti gli altri? E’ la loro disabilità forse che li definisce?
No, è quel qualcosa di unico e
caratteristico che è la loro identità che per lo più solo i genitori, i
fratelli, gli amici veri che entrano in relazione profonda con loro riescono a
scoprire, riescono a vedere. Quelli che non negano la loro
diversità, ma quelli che vanno a leggerci dentro e che una volta trovato quel
qualcosa di unico che lo distingue, lo amano profondamente.
Allora
cosa dire ai bambini a proposito di un compagno con la sindrome di Down o di un
bambino disabile?
Oggi più che mai credo che si debba
parlare ai bambini del valore della diversità e di come tutti noi siamo
differenti.
Cercherei
di far scoprire loro cos’è quell’unicum che rende speciali ognuno
di loro e che li rende diversi gli uni dagli altri, pezzi unici e straordinari
di un unico puzzle.
Cercherei
di spiegare la differenza tra la parola equo e uguale: i bambini per esempio provano un profondo senso di
ingiustizia quando Emma prende lo stesso voto loro con una verifica diversa.
Ebbene riuscire a spiegare loro che non si tratta di essere trattati in modo
uguale, ma in modo equo sarebbe una grande conquista. Se il compagno disabile
riesce a completare senza errori la verifica preparata per lui e calibrata
sulle sue competenze e possibilità merita il 10, come tutti i compagni che
hanno ottenuto il massimo nella loro verifica. Essere trattati in modo diverso
a volte è giusto, è un concetto difficile da spiegare anche ai figli nella
relazione con i fratelli, ma è un punto fondamentale che li renderà uomini e
donne migliori da adulti. Cercherei di far capire cosa significhi davvero
“inclusione”. Inclusione non significa che tutti siamo uguali e per questo
dobbiamo stare insieme, ma significa che ognuno è diverso e ha il diritto di
esprimere la propria individualità nella sua classe, nella sua comunità, nel
suo paese, nel mondo, ma le sue caratteristiche e la sua persona vengono
accettate e rispettate.
Il compito di ognuno è di
accettare l’altro com’è. Il che non significa “lasciarlo lì”, ma significa
accoglierlo per quello che è, andargli incontro e cercare le strategie per
incontrarlo davvero. Non si crea empatia negando la diversità.
Guardare in faccia la diversità, non negarla, permette di conoscerla e di non averne paura. A volte permette di riconoscersi altrettanto diverso in qualcosa e di sperimentare la diversità sulla propria pelle. Andare a scoprire cosa c’è di unico e speciale nell’altro oltre la diversità (e ora non parlo solo del compagno disabile, ma dell’altro più in generale) è un viaggio meraviglioso che permette di conoscere se stessi e gli altri davvero e di dare valore alla differenza. Accettare la diversità dell’altro e riconoscere le differenze come una risorsa per imparare, confrontarsi, crescere, migliorarsi permetterà ai ragazzi di entrare in una relazione vera l’uno con l’altro.
Martina Fuga
dal blog https://imprevisti.wordpress.com
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