LUCIA FRONZA CREPAZ: LA DONNA PERFETTA
Lucia Fronza Crepaz |
Mia madre Lidia era la rappresentante sindacale del Nord Italia per le lavoratrici della sua categoria: combattiva, preparata… ma quando negli anni ‘50 si sposò, come si usava allora, lasciò il suo lavoro sforzandosi di trovare in altri impegni di volontariato il modo di mettere a frutto la sua incomprimibile passione civile.
Fu
quell’esperienza a darle un’energia particolare nell’insegnare a Maria Teresa e
a me, le sue due figlie, che essere donna voleva dire avere in sé la capacità
di non lasciarsi mai intrappolare dalle circostanze.
Poi,
cresciuta, mi ritrovai ad agire dentro due realtà sociali molto diverse, ma che
continuarono a loro modo quello stesso insegnamento: un collettivo femminista e
l’esperienza con le Gen, seconda generazione del Movimento dei Focolari.
Per
ragioni diverse questi due gruppi erano molto chiusi alla presenza maschile,
che veniva ritenuta non indispensabile, se non distrattiva rispetto ai propri
percorsi.
Nel
primo gruppo, il collettivo femminista, eravamo tutte studentesse di medicina e
mi ritrovai, sola cattolica (sola, per esempio, a ritenere che l’aborto non era
un diritto, ma una tragedia), a collaborare ad un entusiasmante lavoro di
ricerca sugli stereotipi di genere presenti nei testi di medicina, o a
organizzare un cineforum sui diritti delle donne… Lavoravamo da sole ritenendo
che fosse meglio così: solo noi avevamo il grado sufficiente di consapevolezza
per ‘svegliare’ le altre donne. Esse solo ci interessavano.
Nell’altro
gruppo, fra le gen, pur con qualche accento di esagerazione, eravamo convinte
che la formazione andava approfondita solo tra noi ragazze, come succedeva per
altro in altri, lontani, luoghi per i ragazzi gen. L’ideale comune che ci
muoveva era “il mondo unito”, ma la costruzione delle motivazioni, l’approfondimento
delle radici spirituali di questa impresa, avvenivano in un universo solo
femminile.
Questo
training fruttò in me una consapevolezza che esisteva, dentro la specifica
irripetibile natura femminile, una pienezza, una compiutezza che non doveva
aspettare la figura maschile per potersi realizzare totalmente.
Continuando
la mia “carriera” di donna, si è aggiunta un’altra esperienza: incontrai mio
marito, ebbi quattro maschi su sei figli e moltissimi veri amici.
Con
essi, tra cui citerei per primo mio marito, ho condiviso la fede, i miei
valori, le mie utopie, esternandole in 1000 e 1000 imprese. Ed è nata così una
splendida nuova consapevolezza che ognuno, maschio o femmina, aveva nella
relazione portata fino alla reciprocità, la chance di sperimentare che la diversità
è necessaria per costruire novità per sé e per gli altri.
Pochi
giorni fa ho ritrovato una pagina di Chiara Lubich che mi ha chiarito la
profondità del significato di essere uomini e donne.
Una
pagina con una novità rilevante, che credo occorrerà approfondire e vivere
ancora molto per poterne trarre tutti i frutti.
«…L’uomo
perfetto ha la donna in sé… Così la donna se è perfetta … è uomo…»
Splendido
tratteggio di un’umanità fatta di diversità coltivate nella loro singolarità,
complete in sé. è questo il tipo di persona che, perché libera di amare senza
aspettarsi niente dall’altro, riesce a stabilire relazioni vere e a
fruttificare nel “noi”.
Non
si tratta quindi di interdipendenza tra uomo e donna, ma del dono per
l’altro e il dono diventa davvero tale, completo in sé, solo quando esprime in
sé, fino in fondo, la sua natura relazionale.
Questa natura può esprimersi perfettamente solo quando si fonda su due pilastri: una comprensione di sé che abbia trovato spazio sufficiente per potersi narrare, la relazione con gli altri che sia frutto, pur fra successi e sconfitte, del coltivato desiderio di fare emergere l’altro.
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