Pietro A. Cavaleri: La normalità è un'illusione
Pietro A. Cavaleri |
In poche settimane, la pandemia da COVID-19 ha modificato stili di vita consolidati da parecchio tempo. Oltre ad avere una ricaduta sulla nostra dimensione sociale, questo cambiamento repentino conduce ad uno stress psicologico inatteso capace, se affrontato correttamente, di rivalutare alcune dimensioni fondamentali della nostra esistenza individuale e collettiva. Su tale questione, abbiamo intervistato Piero Cavaleri.
Docente a contratto presso la Facoltà di scienze dell’educazione Auxilium e didatta ordinario presso la Scuola di specializzazione in psicoterapia dell’Istituto di Gestalt HCC Italy, Cavaleri è il presidente dell’associazione “PiùCittà” sorta a Caltanissetta per lo sviluppo di buone pratiche sociali e politiche.
La pandemia da COVID-19 ha radicalmente modificato il nostro stile di vita. Tutti, o quasi, rimpiangiamo la normalità persino quella gravida di problemi e scadenza. Tuttavia, il periodo che attraversiamo ci invita ad un ripensamento a partire propria dalla cosiddetta normalità. Che cos’è la normalità? Come ripensarla?
La “normalità” è solo un’ illusione che l’uomo moderno ha elaborato negli ultimi secoli per auto-rassicurarsi. Ma in realtà, la normalità non esiste! La cultura moderna, della quale noi siamo figli, attribuendo un infinito potere alla scienza e disprezzando i vincoli comunitari, ci ha fatto credere fino ad ora che tutto può essere “controllato” e “previsto” dagli scienziati. L’illusione che esista una “normalità” è il frutto di un paradigma culturale dominante, per il quale tutta la natura, quella che ci circonda e quella che ci abita, può essere tenuta sotto controllo dal sapere scientifico. Ma così non è! Basti guardare all’emergenza climatica, alle catastrofi naturali, ai flussi migratori, alle pandemie, come quella che sta sconvolgendo ora le nostre vite. Occorre ammettere, al di là dei miti moderni, che la normalità non esiste e che la realtà si sottrae, sempre e in modo imprevedibile, ad ogni “controllo”.
Dobbiamo imparare, con molta umiltà, a non parlare più di “normalità”, né tanto meno di “emergenza”! Nell’orizzonte ingannevole della cultura moderna, “emergenza” è tutto quanto sfugge momentaneamente o casualmente all’onnipotenza del sapere scientifico. Dobbiamo renderci conto, invece, che la vita è un continuo divenire, una emergenza costante, che non si acquieta e non si “normalizza” mai! Lungo la sua millenaria storia, la famiglia umana ha imparato a difendersi dalla instabilità e dalla insicurezza del vivere facendo ricorso al farmaco della coesione sociale, della condivisione, della solidarietà. La cultura, la religione, le istituzioni comunitarie, la stessa scienza, altro non sono se non una “risposta collettiva”, che la famiglia umana ha dato nel tempo alla continua emergenza del suo instabile vivere, che appunto non conosce “normalità”. È ponendosi all’interno della comunità, di un orizzonte di solidarietà e di condivisione, che la scienza può affrancarsi dagli inganni della modernità e tornare ad essere “umana”.
La quotidianità, per mille e più motivi, ci ha reso più prossimi ai colleghi di lavoro o di attività sociale. Con le misure restrittive, i familiari sono – per davvero – ritornati ad essere il nostro primo prossimo. Quali strumenti abbiamo per vivere in equilibrio questa nuova dimensione?
Lo strumento più importante è di sicuro l’amore, che si fa attento, paziente, audace, creativo, speranzoso, instancabile. Konrad Lorenz, un grande maestro dell’etologia, sosteneva che più aumenta la densità di abitanti in un determinato spazio e più aumenta fra essi l’aggressività. Il fatto stesso di stare per tanto tempo tutti quanti insieme in famiglia, fa di per sé aumentare la tensione relazionale. Senza parlare poi della paura e del contesto irreale nel quale ci troviamo a vivere. Tuttavia, anche in questa nuova dimensione, possiamo darci un filo d’oro, una “stella” di riferimento nella notte di questa navigazione non facile, e chiederci: qui e ora come posso ricominciare ad amare chi mi sta accanto? Come posso riconoscere in modo nuovo il suo bisogno di contenimento emotivo, il suo desiderio nascosto di essere sollevato dalla paura, dall’insicurezza di questo momento?
Naturalmente occorre ricordarsi sempre che per essere in grado di avere cura degli altri occorre prima, o contemporaneamente, avere cure di se stessi, provando ogni giorno a dedicarsi degli “spazi” mentali o fisici, alimentando in mille modi la cura del proprio corpo, della propria mente, del proprio spirito. Solo a queste condizioni possiamo creare e mantenere un equilibrio che possa permetterci di trasformare questi giorni non facili in una esperienza capace di migliorare la qualità delle nostre relazioni in famiglia.
Molti, anche fra i giovani, denunciano stati d’ansia e di stress emotivo dovuti tanto alla situazione emergenziale quanto ad una comunicazione divenuta, per molti motivi, esorbitante. I genitori, i docenti e gli operatori sociali in genere come possono supportare chi vive dei veri e propri attacchi di panico?
L’essere cresciuti nell’illusione di una condizione di vita “sicura” ci rende ora tutti, giovani o adulti, particolarmente esposti alla paura, all’ansia, allo stato di panico. Quando si crede di vivere in una società sicura e protetta, sperimentare poi l’esatto contrario costituisce, per molti aspetti, una esperienza traumatica. Posto di fronte ad un evento traumatico, il cervello umano reagisce spesso interrompendo i circuiti neurali che collegano le aree più arcaiche e istintive, con quelle più evolute e razionali. La paura è una delle più antiche emozioni degli organismi viventi e ci segnala sempre l’esistenza di un pericolo che mette a rischio la nostra vita.
In presenza di una minaccia alla nostra stessa sopravvivenza, non c’è tempo per ragionare, sicché in noi prende il sopravvento il sistema nervoso autonomo, che con le sue reazioni istintive, con i suoi automatismi arcaici tenta di “farci salva” la vita. Accade così che a prendere il comando della nostra mente non è la parte razionale, cognitiva, di noi stessi, ma quella irrazionale ed emotiva. A questo punto, “l’animale spaventato” che ci abita mette in atto un “protocollo” antichissimo, che è sopravvissuto lungo tutto l’arco dell’evoluzione. Questo protocollo prevede tre reazioni autonome: il blocco, la fuga o l’aggressività. Tentare di ragionare con “l’animale impaurito” è pura perdita di tempo! Il suo emisfero sinistro, la sua neocorteccia, la sua razionalità, sono al momento del tutto disconnesse e inattive.
Non serve sentire continuamente notiziari televisivi o ascoltare ininterrottamente i consigli degli esperti. Per poter agire sull’animale impaurito, occorre sintonizzarsi sul suo emisfero destro, cioè sul mondo dell’implicito, della fantasia, della creatività, del corporeo, dell’emotivo. Occorre, cioè, usare i canali comunicativi non verbali, fatti di sguardi accoglienti, di messaggi corporei rassicuranti, di gesti empatici, come l’abbraccio compassionevole e contenitivo. Possono essere utili l’evocazione di fantasie rassicuranti e positive, il ricordo di ambienti e contesti infantili vissuti come sicuri e protettivi, la focalizzazione su ciò che qui e ora è possibile percepire come positivo e in nostro potere, l’ascolto di musica capace di rilassare il respiro e la tensione muscolare. Insomma, più che pensare e ragionare, per rassicurare l’animale impaurito, è necessario “fare” e sperimentare in concreto, magari dipingendo, o suonando, o facendo attività fisica, possibilmente in compagnia di qualcuno.
Per via delle restrizioni non è possibile celebrare riti religiosi. Tuttavia, i credenti possono pregare. In una situazione come quella che viviamo che ruolo può assumere la fede?
La fede è un immenso e prezioso arsenale di “chiavi di lettura” in grado di dare agli eventi, anche quelli più complessi e dolorosi, significati nuovi, ponendoli all’interno di orizzonti positivi, fatti di speranza e creatività adattiva. Ma soprattutto la fede, in particolare quella cristiana, apre all’altro, alla comunità, ai bisogni di chi ci sta accanto, ci costringe insomma ad abbandonare l’avvitamento su noi stessi, che produce stress emotivo e, dunque, tossicità psichica (ardenalina e cortisolo ecc.). La fede ci fa sentire avvolti, amati da un Dio provvidente e misericordioso, facendo acquietare l’animale impaurito che vive in noi. Non è un caso che i neuroscenziati abbiano individuato nella spiritualità e nella vita di fede una delle esperienze più valide per favorire negli umani benessere mentale e capacità adattive.
È vero l’Italia e, ormai, l’intero occidente è piegato dalla morsa del coronavirus. Migliaia di vittime e ingenti perdite economiche colpiscono il nostro modello sociale. Ma nel mondo – si pensi ai profughi senza fissa dimora, ai poveri del terzo e del quarto mondo – esistono situazioni peggiori delle nostre quarantene passate in confortevoli case. Ti pare che spesso, nel primo mondo, si diffonda una sorta di parzialmente giustificato vittimismo?
Dietro questo vittimismo, come lo chiami tu, io avverto soprattutto il fastidio di dover rinunciare improvvisamente ad un “mondo sicuro” ed essere obbligati a fare i conti con l’esperienza irricevibile della morte. Gli abitanti del primo mondo, come ebbe modo di evidenziare il filosofo Michel Foucault, hanno sapere scientifico, tecnologia e sicurezza economica, ma non sono attrezzati per affrontare la morte, il limite, la fragilità, la vulnerabilità.
Di fronte a tutte queste realtà profondamente umane, sono sprovvisti di mezzi adeguati, hanno difficoltà ad attivare significati nuovi, processi corali e adattivi di resilienza. A pensare bene sono effettivamente “vittime”, ma di un inganno moderno che, consegnandoli all’onnipotenza della scienza, li ha sottratti a quanto di umano ci sia e cioè la capacità di condividere il dolore e la morte.
Questa tragedia legata alla pandemia passerà. Speriamo che tutti quanti possiamo trarne una lezione, ciascuno secondo le proprie responsabilità umane, sociali, economiche, culturali e politiche. A tuo parere quali conseguenze, nella vita post pandemia, genererà questo periodo.
Spero conseguenze positive, costruttive, evolutive. In genere i periodi che seguono a guerre devastanti, a catastrofi distruttive, sono caratterizzati da uno spirito di ricostruzione, e dunque di solidarietà e di condivisione. In tempi come questi, l’individuo con più facilità mette da parte i suoi egoismi e si affida più volentieri alla comunità. Questo vale per le singole persone, come per le nazioni. I segnali che stanno venendo dall’UE fino ad ora purtroppo non vanno in questa direzione. Mi pare evidente, tuttavia, che anche per l’UE questo sia un test decisivo.
Durante la pandemia non darà prova di solidarietà e piena condivisione sul piano politico-sociale, dopo la pandemia potranno avere luogo gravi processi di forte ed irreversibile disgregazione. L’UE non può rimanere un coacervo di interessi esclusivamente economici. Questo è il momento di dimostrare che esiste l’UE dei popoli e non dei finanzieri. Se questo non accadrà, temo conseguenze molto serie. Mi auspico che dalla pandemia planetaria possa scaturire una “globalizzazione dal basso”, cioè dei popoli, delle persone, capace finalmente di mettere l’uomo, e non la massimizzazione dei profitti, al centro della politica e dell’economia globale.
Intervista a cura di Rocco Gumina
da sito internet L'Antenna: Anche la Pandemia ci insegna che la normalità è un illusione
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