Renato Kizito Sesana: OLIVER HA VINTO
Oliver e Besh |
Padre Renato
Kizito Sesana, originario di Lecco, è missionario comboniano
e giornalista. È stato direttore di Nigrizia negli anni
'70, poi fondatore e direttore di New People a Nairobi. In Kenya
e in Zambia, dove ha fondato la comunità Koinonia, si dedica in
particolare ai bambini di strada e ai giovani. Ha scritto Accogliere gli
stranieri e Tutti i cuori del
mondo,
libro che raccoglie gli incontri con bambine e bambini africani raccolti dalla
strada e che hanno iniziato una nuova vita nelle comunità da lui volute.
Parlando di loro con tenerezza, il missionario trova sempre spunti per una
riflessione più ampia: la felicità e le sperequazioni economiche, la vita
e la morte, la chiesa e la convivenza con l’Islam, la violenza e la
solidarietà. Egli vuole raccontarci l'esperienza di Oliver , uno dei ragazzi di
strada che lui ha incontrato.
Ci parli un po' di
Oliver.
Oliver ha vinto.
Ha vinto le allucinazioni che la sera non gli lasciavano prender sonno, ha
vinto i fantasmi della strada che tornavano a visitarlo in piena notte, ha
vinto i ricordi dell'infanzia che volevano impedirgli di perdonare. Ha
vinto perché ha ammesso di aver perso e adesso vuole ricominciare da
capo. Forte, determinato. Coi piedi piantati bene a terra. E che piedi!
Numero di scarpe non in commercio.
Dove ha incontrato
Oliver?
Oliver, 23 anni,
mi ha dato il permesso di pubblicare la sua foto e un po' della sua
storia. Era nel gruppo di giovani adulti sgomberati dal centro città di
Nairobi su ordine del Presidente Uhuru Kenyatta, perché considerati un pericolo
per l’igiene e la sicurezza. La polizia li ha portati a Ndugu Mdogo, uno dei
centri di prima accoglienza gestiti da Koinonia, a fine marzo. Come gli
altri, appena arrivato si era buttato sul prato, per stanchezza, ma anche perché,
come mi ha confidato qualche tempo dopo, avrebbe voluto sparire negli stracci
che aveva addosso. Un mucchio di stracci insieme ad altri stracci.
Come ha reagito
quando è arrivato nella vostra comunità?
Già il giorno dopo aveva capito che a Koinonia c'era una forza che non gli era mai capitato di incontrare. Più forte della sua forza fisica. Ha discusso, ha battagliato con gli altri e ancor di più con sé stesso. All'inizio della settimana scorsa, risoluto, mi aveva detto di voler tornare in strada. Ho rispettato la sua decisione spiegandogli che è la sua vita, la deve vivere lui, ma che se avesse deciso di fidarsi ancora di noi ci avrebbe trovati sempre dalla sua parte, Harrison, Besh, io e tutta Koinonia. Così è andato via.
Scomparso per sempre?
No, il sabato mi
ha chiamato: «Padre, volevo mettermi alla prova. Adesso ho deciso di tornare al
villaggio d'origine». Il villaggio di Oliver è vicino al lago Vittoria, il più
grande specchio di acqua dolce in Africa e il secondo al mondo. Gli sono
rimasti solo una nonna e un cugino, più un pezzo di terra da coltivare. Lunedì
mattina è partito, accompagnato da Besh.
Succede spesso
questo voler tornare nel villaggio di origine?
Oliver è il primo
del suo gruppo che ha fatto la conversione dalla strada alla famiglia di
origine e alla terra. A Dio. Con lui hanno camminato i suoi amici di
strada e i ragazzi di Koinonia. Cambiare è un cammino che si fa
insieme. Ci sono momenti personali, esclusivi, dove si fa corpo a corpo
con Dio, come Giacobbe, tuttavia la più parte del camminare la si fa insieme
agli altri. Ci sono momenti di illuminazione, in cui la coscienza coglie
una verità, ancora vaga, impalpabile. Ma poi quella verità deve essere messa
alla prova del confronto con gli altri.
Il confronto con
gli altri non è mai facile…
Lo sperimentiamo
nei momenti serali del dopo cena. quando con tanta allegria, intorno al tavolo,
si ricordano episodi della giornata e si parla di giustizia e di solidarietà.
Dell'importanza che giustizia, solidarietà e perdono siano sempre insieme. Ieri
sera, mentre Harrison condivideva una sua esperienza di come sia importante
avere un atteggiamento di rispetto per tutti, anche per i più piccoli, ho visto un paio di occhi illuminarsi, mi son
ricordato di fratel Valentino Fabris.
un nomento di vita della comunità |
Era un fratello
laico comboniano vecchio stile che non aveva studiato niente ma che negli oltre
sessant'anni passati in Africa, fra la gente dei villaggi, aveva distillato una
sapienza del cuore che incantava chiunque lo ascoltasse. Rientrato a Verona
dalla missione, ultranovantenne, nel 2013, immancabilmente concludeva i
vivacissimi e colorati racconti delle sue avventure missionarie con: «Vedi
padre – Valentino parlava sempre ad una persona, anche se erano tanti ad
ascoltarlo –, se io sono qui – e indicava con la mano una certa
altezza – e tu sei qui – e indicava più in basso –, è inutile
che io cerchi di insegnarti il Vangelo. Non mi crederai mai. Dobbiamo
essere così - e metteva le mani allo stesso livello –, allora sì che
insieme capiremo il Vangelo».
Quando è partito
Oliver?
Un lunedì mattina, mentre io partivo in auto verso Kilifi, dove Dimba e Ken stanno avviando un progetto in una piccola comunità di pescatori – esperienza nuovissima per Koinonia che avrò modo di raccontare in altri momenti –, Oliver e Besh sono partiti per Kisumu. Nella foto li vedete insieme: Oliver, l'ex “bambino di strada” che torna a casa, è quello alto, mentre Besh è quello piccolo. Besh è con noi dal 2005 e adesso è un assistente sociale diplomato che sa mettersi al livello degli altri. Anche se in questo caso fisicamente non lo potrebbe fare neanche alzandosi sulla punta dei piedi.
Come si svolge il lavoro in comunità?
Un gruppo di
tredici ragazzi maggiorenni riscattati dalla strada in situazione di emergenza
completa la prima settimana di corso pratico di ristorazione, organizzato da
Diakonia Institute per dieci settimane. Molto lavoro in cucina, servizio in
sala e nozioni di management, tutto a Shalom House e Baraza Café. Come gestire
un piccolo ristorante – o eating point – e quali sono i permessi da ottenere e
le tasse da pagare.
Per necessità logistiche sono ospitati a Kivuli. Ogni mattina fanno una
camminata di 30/40 minuti fino a Shalom, e alle 9 iniziano a lavorare, in
gruppi, al forno o in cucina. Parte della lezione è preparare il loro pasto, e
aiutare a servire al tavolo gli eventuali clienti, pochi in questi giorni. Si
sono subito appassionati. Oggi mi hanno voluto servire il pasto preparato da
loro, un hot dog con riso pilau.
Riescono questi
ragazzi ad integrarsi facilmente?
Oggi S***, che sta
ancora imparando ad usare forchetta e coltello, a fine pasto, nel nostro
immacolato – se cade una briciola fanno il turno a pulire – ma modesto Baraza
Café, guarda stupefatto il suo piatto vuoto, e poi mi dice: «Grazie,
padre: è la prima volta in vita che mangio in un ristorante. Finora li
avevo visti solo in televisione». Quale televisione? Quelle che i negozianti
espongono accese in vetrina o sulla strada per attirare i clienti. I vestiti
sporchi, il sacco con i rifiuti di metallo o plastica che poi andranno a
vendere, i bambini di strada che guardano queste televisioni sono essi stessi
uno spettacolo. Assorbono ogni dettaglio delle telenovelas che vanno tanto di moda,
sognando un mondo fasullo che non sarà mai il loro. Per fortuna.
E' presente lo
sport nella comunità?
Si pratica molto
sport. La vita che loro portano è molto più bella e genuina. La loro
presenza ha fatto rivivere Kivuli, temporaneamente privato della presenza dei
bambini. Le scatenate partite di pallacanestro sullo sgangherato campetto, i
capannelli che parlano di calcio, i fanatici di reggae che nel salone
ballano senza sosta intorno ad un computer che ripete all'infinito Buffalo
Soldier, mentre i due di turno in cucina di danno da fare a praticare l'arte
imparata il mattino, perché a tavola non ci saranno solo loro tredici, ma anche
i tre ragazzi che ancora vivono a Kivuli, Peter con il suo eterno problema alla
gamba, e stasera anche sette ragazzi sud-sudanesi ed Evelyn, la responsabile di
Kivuli.
Un momento che ti
piace ricordare?
Tutto intorno al
grande tavolo nel locale che a Kivuli è conosciuto come “Italian Restaurant”.
Dileggi e risate a non finire ricordando gli impacci e gli errori di
ognuno durante la pratica in cucina, lo stupore del cliente che si vede
attorniato da sei camerieri, il rimprovero del capocuoco/istruttore Kasanga che
ha sorpreso uno di loro che si era fatto una fetta di pane e marmellata... Poi
si alza J***, al quale da quando è arrivato non ho sentito dire più di
dieci parole: con un cenno chiede il silenzio e recita una preghiera
in inglese impeccabile. Applauso generale, J*** si guarda in giro e dice in un
inglese non più perfetto perché improvvisato qualcosa tipo: «Io chiedo scusa,
perché qui siete tutti troppo miei amici». Altre risate, e M*** lo corregge:
«Non dovevi dire chiedo scusa, ma vi ringrazio». J*** accetta la correzione con
un sorriso, e non si azzarda a dire altro, ma con un cenno invita ad
incominciare il pasto. Spaghetti aglio, olio e peperoncino con contorno di
cavoli stufati. Cala il silenzio. Il cibo lo si mangia con rispetto, quasi con
devozione.
Quale il segreto
della tua Missione?
Qualcuno mi
domanda: Ma cosa c'entra organizzare un corso di cucina con fare il
missionario? Forse non c'entra niente con “fare il missionario” ma c'entra
molto con l'”essere missionario”. E se non lo capisci io non posso spiegartelo,
perché non lo capiresti mai, anche se te lo spiegasse un grande biblista. Ma ci
provo. Le parole possono spiegare il Vangelo e approfondire la fede di chi
già crede, masolo eccezionalmente lo
comunicano. Essere missionario è creare fraternità. Solo lo stare insieme, il
vivere fianco a fianco, il condividere, l'amore vissuto possono comunicare il
Vangelo. Questo è il linguaggio che tutti capiscono e che può comunicare la
Vita.
Padre Renato Kizito Sesana |
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