Luigini Bruni: LA MERITOCRAZIA legittima la DISUGUAGLIANZA
Luigino Bruni |
La meritocrazia è oggi la
legittimazione etica della diseguaglianza. Nel XX secolo, in Europa, abbiamo
combattuto la diseguaglianza come un male; nel XXI secolo, è bastato cambiarle
nome (meritocrazia) per trasformare la diseguaglianza da vizio a virtù
pubblica. Destino bizzarro, se si pensa che la meritocrazia è stata ed è
presentata come una lotta alla diseguaglianza - per questo la bizzarria che i
fanatici della meritocrazia siano persone che in buona fede vorrebbero una
società migliore e più giusta.
Anche per la meritocrazia
è vero quanto diceva, cento anni fa, il filosofo tedesco Walter Benjamin: «Il
cristianesimo nell’età della Riforma si è tramutato nel capitalismo». La
meritocrazia, infatti, prima di diventare dogma economico, era una categoria
religiosa e teologica. «Lucrare meriti», «guadagnarsi il paradiso» e altre sono
espressioni e temi che per secoli sono stati al centro della pietà cristiana, e
continuano ad accompagnare ancora oggi la vita dei cattolici.
Una certa idea di merito
era già presente nella Bibbia, ma è stato l’incontro con l’etica greca e romana
che ha trasformato parte del cristianesimo in un’etica del merito e delle
virtù, fino a pensare che un cristiano per essere dichiarato santo debba
mostrare di aver praticato virtù eroiche. L’etica biblica ed evangelica era invece
diversa, l’eccellenza non era nelle virtù ma nell’agape, che non fa parte né
delle virtù stoiche né di quelle aristoteliche.
Da qualche anno la
meritocrazia è uscita dai dibattiti delle aule delle facoltà di teologia, ha
dimenticato le dispute dottrinali di Paolo, Agostino, Pelagio, Lutero ed è
entrata nelle aule più eleganti e moderne delle business school, dove questi
temi sono affrontati senza competenza teologica.
La meritocrazia ha radici
antichissime e profonde. Una vena profonda delle civiltà umane ha da
sempre pensato che da qualche parte dovesse esistere un ordine che
ricompensasse ciascuno in base ai meriti che ha acquistato e lo punisse per le
colpe commesse e cumulate.
In genere questo ordine
era concepito come sovrannaturale e rimandato ad una vita futura, poiché era
troppo evidente che sulla terra un tale ordine non esisteva né era mai
esistito. Ad un certo punto, però, dentro l’evoluzione della civiltà
occidentale è apparsa un’idea del tutto nuova e imprevedibile, quella secondo
la quale una società meritocratica era finalmente possibile qui ed ora.
Semplicemente perché una tale società in realtà esisteva già, era la business
community, della quale le grandi imprese e banche erano l’espressione più
matura.
Lì i meriti erano
quantificabili, misurabili, ordinabili in una scala, in modo che a ciascuno
andasse il suo, né più né meno. Il “suo” in meriti e, chiaramente, in demeriti.
Una operazione-promessa che ha convinto molto e molti, perché si presentava e
si presenta come una forma superiore di giustizia (rispetto a quella ordinaria
e comune).
E così nel giro di pochi
anni la meritocrazia è migrata dalla business community all’intera società
civile, dalla politica alla scuola, dalla sinistra alla destra, dalla sanità al
non-profit, e sta insidiando anche le comunità ecclesiali.
Una grande operazione
ideologica, tra le più vaste del nostro tempo, che si basa sull’imbroglio,
etico e antropologico, tanto evidente quanto non detto: che i nostri meriti e i
demeriti siano evidenti, facili da vedere e poi da ordinare, misurare, e poi
premiare.
Un’altra ipotesi,
arbitraria, sta poi nel ritenere che il mercato sia capace di premiare i
meriti, tacendo così che una virtù fondamentale del mercato, un tratto
essenziale del buon imprenditore, è saper convivere con esiti non associati a
meriti e colpe propri e degli altri.
Un grave vizio del
mercato è infatti pretendere che i propri risultati siano legati ai propri
meriti e non a quanto gli altri con cui interagisco sono disposti a
riconoscerci e a remunerare. Ma c’è di più. Noi sappiamo che i nostri meriti
più preziosi li scopriamo affrontando una malattia, un lutto, una separazione.
Perché sono davvero pochi i meriti che transitano per la sfera economica,
poiché le imprese, in realtà, non sono interessate ai nostri meriti più
profondi e veri.
Non vogliono la nostra
umiltà né la nostra mitezza, perché ci vogliono «vincenti» e invulnerabili; non
vogliono la nostra misericordia né la nostra compassione, virtù e beatitudini
che non capiscono e se le capiscono le temono.
Non ce lo dicono ma da
noi le imprese vogliono poco, perché intuiscono che se ci chiedessero molto noi
daremmo troppo, diventeremo talmente liberi da non essere più gestibili e
orientati dagli obiettivi aziendali.
Infine, la meritocrazia è
un meccanismo ideologico che ci libera dalla responsabilità nei confronti dei
poveri. Un corollario necessario della meritocrazia è infatti l’interpretazione
della povertà come colpa. Perché se il talento è primariamente merito (il
grande assioma della meritocrazia), la mancanza di talento diventa demerito, e
quindi la povertà colpa.
L’ultimo residuo di
welfare europeo sarà spazzato via quando ci saremo lasciati finalmente
convincere che i poveri sono colpevoli della loro povertà. Li lasceremo nella
colpa della loro sventura, e noi dormiremo tranquilli nei nostri meriti e nella
nostra irresponsabilità.
Luigino Bruni
pubblicato su Corriere Buone Notizie il 19/12/2019
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