Alessio Boni:"Ogni uomo desidera essere accolto, ascoltato"
Alessio Boni |
Abbiamo rivolto ad Alessio Boni, protagonista con Alessandro Haber della commedia Il Visitatore, in programmazione nei teatri italiani, alcune domande sul suo impegno artistico teatrale.
Film di successo, fiction ma…si torna sempre al
teatro. Necessità, passione o cos’altro?
Necessità. Sono
nato attore con il teatro. Prima che arrivassero le prime proposte per il
cinema o in televisione ho fatto sette anni di teatro, poi è venuta “La meglio
Gioventù” e tutto il resto. Qualcuno è portato a pensare che un attore oggi
possa scegliere di fare teatro, perché sente di provare forti emozioni e di
ricevere applausi dal vivo ogni sera, cosa necessaria al narcisismo della
nostra professione…ebbene vi posso garantire che non è sempre e solo questo il
motivo. Se vivi la professione di attore con passione avverti che non puoi
tagliare questo cordone ombelicale col teatro, hai necessità di quella linfa
vitale che il teatro sa darti e ti
permette di capire attraverso gli spettatori, con le loro reazioni, il periodo
storico che la nazione sta vivendo e nel
quale bisogna vivere pienamente. Tutto questo nel cinema e nella televisione
non c’è perché ti trovi davanti ad una macchina da presa, un mezzo meccanico
che non esprime alcuna reazione, che ti prende, ti risucchia, ti toglie, ti
porta via qualcosa…Non vorrei che mi si fraintendesse, io amo molto il cinema; voglio solo dire che esso
possiede una modalità di attuazione
molto differente dal teatro dove, invece, c’è un rapporto diretto col pubblico
che ti carica di un’energia vitale, ti
riempie l’anima e la mente e ti
fa capire ogni giorno in maniera nuova quello che puoi sempre donare di te. Se
c’è il teatro che riempie di senso il
tuo lavoro di attore, allora più facilmente puoi anche tornare davanti alla macchina
da presa per donare ciò che hai acquistato.
Abbastanza;
anche se ci sono stati grandi attori che hanno fatto solo cinema. Il recitare
in teatro ti porta ogni giorno a scandagliare l’arco drammatico della vicenda
da rappresentare, dall’inizio alla fine. Non come al cinema dove tu lavori per scene e puoi anche iniziare dall’ultima…Il cinema è soprattutto del regista che, una volta girate le singole
scene, esegue il montaggio. Nel teatro invece una volta impostato il lavoro con
il regista, il tutto resta nelle mani
dell’attore che ogni volta reinterpreta quel testo trovando nuove sfumature ed
accenti nuovi.
Quanto è importante il rapporto di corresponsabilità
con gli altri attori per la riuscita di un lavoro teatrale?
Moltissimo. E’
questo rapporto di intima e profonda collaborazione che ti porta ad essere
attento agli altri interpreti e che comporta quella sinergia creativa che si
riflette sulla riuscita del lavoro. In questa messa in scena de Il visitatore è stato importantissimo
per me il rapporto con Alessandro
Haber col quale avevo già lavorato in Art. Ancora ieri Haber mi ha dato una
dritta su una scena, dicendomi: “Prova a
farla così”, ed infatti io oggi la farò in questo modo nuovo. Noi attori non
possiamo essere statici, ma continuamente in evoluzione, in quanto ci rendiamo
conto di quello che necessita al pubblico, e quello che andava bene per una
certa platea non può andar bene sempre. Devi capire di volta in volta come dare quel testo a chi ti sta davanti. Ti
posso garantire che 30 anni fa Haber recitava in modo diverso, non perché sia
diventato più bravo, ma solo perché la realtà storica e ambientale 30 anni fa
era diversa e si parlava in modo diverso. La società di oggi, per esempio, è
più veloce e allora ti poni la domanda: in che modo andare direttamente al
cuore dell’uomo di oggi? E questo non sei tanto tu a poterlo decidere, ma solo
se ti poni in atteggiamento di apertura e di donazione verso il pubblico che è
venuto a sentirti tu percepisci come offrirgli quel determinato testo e i
contenuti di esso. E, allora, se tutti gli interpreti vivono il teatro in
questo modo, l’intera rappresentazione diventa un evento forte e incisivo.
Quando ti è stata presentata la proposta di interpretare Dio in questo lavoro del
francese Eric-Emmanuel Schmitt, Il
Visitatore, quale è stato il tuo primo pensiero?
Quando mi viene
proposto di interpretare un personaggio di una commedia, non mi fermo al
personaggio; guardo prima di tutto la
sceneggiatura nel suo insieme e
soprattutto i dialoghi e se essi mi convincono, accetto. Solo in un secondo
momento mi fermo al personaggio… Questa volta non mi sono spaventato
perché l’autore saggiamente ha disegnato
un personaggio molto umano, non distante da noi, anche se si può immaginare che
esso possa essere una proiezione inconscia di Freud che prende corpo in quel
momento. Esso si presenta in maniera molto umile, terra terra, un clochard,
quasi un bambino che non articola ancora bene i suoi arti ma dotato di una
vivida intelligenza e un pensiero forte che piano piano vien fuori con dialoghi
serrati. Devo dire che sono stato preso da questi dialoghi, una sorta di lotta
senza peli sulla lingua vissuta con estrema libertà e sincerità. Qualcosa di
molto interessante, perché ci permette di scandagliare l’intimo dell’uomo, i
suoi dubbi, la sua ricerca di verità e questo è qualcosa che accomuna tutti,
credenti o non credenti, sia che si abbia una certa visione delle cose o
un'altra. Colpisce il fatto che Dio non voglia convertire Freud ad una fede
religiosa. Lui rimane ateo ma la categoria del mistero è entrata nella sua
mente e il dubbio s’insinua in lui.
Man mano che il lavoro ha preso corpo sei sempre
stato pienamente convinto della scelta fatta.
Sì anche se non
mi sono posto mai di fronte al “personaggio Dio”, perché non credo che Dio sia
un personaggio, è un entità, è una luce,
non è neanche Gesù. Mi sono quindi buttato a interpretare questo personaggio strambo,
così come il regista l’ha visto: mezzo clochard, mezzo pazzo, mezzo bambino,
mezzo puerile mezzo saggio che però dice parole sorprendenti che mettono sulla
difensiva Freud…Dire queste parole così importanti e potenti, certo, non è
stato facile; questo si che mi ha messo in crisi. Anche Alessandro Haber ha
avuto le sue crisi. Avevamo però accanto a noi un grande maestro come Valerio Binasco che ci guidava, per cui mi
sentivo protetto. Ho seguito le sue indicazioni e poi in scena abbiamo trovato la nostra strada e cercato di
dare il massimo dell’ intensità alla nostra recitazione. Certo che bisogna
essere concentrati per entrare e restare
in un personaggio così, non puoi distrarti o passare la sera in discoteca, ma massima
concentrazione, esercizi di yoga e musica classica… Cerchi di vivere ogni
momento della giornata in quel personaggio che si riflette in quello che dici,
come ti vesti, che ti permette di affidarti al regista, o di ricevere gli aiuti
dagli altri attori e così ti ritrovi in
scena e ti senti trascinato a rivivere
quello che hai percepito nella tua interiorità e lo doni con slancio a quelle
persone che sono lì per ascoltarti.
E oggi, dopo averlo rappresentato già in molti
teatri italiani, cosa puoi dire della
reazione del pubblico?
La reazione del pubblico, sembra strano a dirlo, è sempre
la stessa, e questo ci sorprende; non è stato neanche un successo. Oserei dire
che dovunque è un trionfo. Incredibilmente e straordinariamente, dal Sud al
Nord viene accolto nello stesso modo. Ti accorgi subito della diversità degli spettatori in platea, quelli di Pescara
sono diversi da quelli di Napoli, ma gli applausi finali sono stati sempre
scroscianti e prolungati. Mai ci era capitato di essere chiamati a fine
spettacolo anche 8 volte.
Nell’ambito della psicoterapia, Freud negli ultimi
decenni sembra essere stato messo un po’ nell’angolo. In qualche modo questa
commedia ce lo fa riscoprire nel suo dramma di uomo e quindi ce lo fa sentire
più vicino a noi.
E questo è
l’aspetto più bello della commedia perché ti fa entrare nella fragilità di un
uomo; non lo metti più su un piedistallo solo perché è il padre della
psicoanalisi. Qui troviamo un Freud in crisi, nella sua fragilità, malato, che
vive drammaticamente le vicende politiche del suo tempo, che morirà dopo pochi
mesi e che, per questa sua condizione, si avvicina al mistero, alla
spiritualità, anche se fino a qualche istante prima lo negava con tutte le sue
forze, magari per orgoglio. Ora invece in questa intimità della sua casa, in
questa condizione di estrema precarietà ecco che gli appare un Dio che magari
prima non gli sarebbe mai apparso. Un aspetto, questo, molto interessante
perché ci riporta alla nostra vita, alle
nostre fragilità, alle nostre paure e perplessità e le vediamo proiettate in
quel personaggio che è più grande di noi, e dici a te stesso: è bello questo sentirci
uniti nella fragilità umana. Mi sembra questa l’idea forza su cui Schmitt ha
costruito la sua opera teatrale, che riesce a portare lo spettatore dentro il
dramma di Freud e lo coinvolge
intimamente, e ciò forse spiega il perché di questa grande accoglienza dovunque.
Può aver influito in questo anche la presenza
storica di Papa Francesco che ha aperto un ponte tra credenti e non credenti
come mai era successo prima?
Può darsi, ma
non l’avevamo preventivato. Quando abbiamo cominciato a lavorare a questo
spettacolo Papa Francesco non c’era ancora. Poi è nato questo dialogo tra
Francesco e Scalfari, tra persone di convinzioni religiose e non. E noi eravamo
sorpresi da questa coincidenza. Quello che avveniva fuori, nella storia
dell’umanità in questo rapporto nuovo tra credenti ed atei noi lo stavamo
portando a teatro ogni sera
Pensi che il dialogo tra chi ha una fede religiosa e
chi si professa ateo possa oggi avere un futuro dopo anni di contrasti e di
lotte e di tragici eventi storici di cui la Chiesa cattolica ha chiesto perdono
all’umanità.
Credo proprio di
sì. Ritengo che questo dialogo sia un aspetto fondamentale da cui non si potrà
prescindere nello sviluppo futuro dell’umanità. Si ritorna a parlare insieme
dell’uomo, dei suoi pregi ma anche dei suoi limiti, delle sue fragilità. Anche
Gesù in quanto uomo, ha sperimentato la
fragilità, ha pianto, ha provato sentimenti contrastanti, ha avuto paura, ha
sentito l’abbandono da parte di Dio. E soprattutto perché oggi si riscopre il
senso più profondo di una fede religiosa che è quello di mettere insieme,
unire, accogliere gli altri. Se siamo attenti alla realtà sociale di oggi,
vediamo che l’uomo più di ogni altro momento storico ha voglia di essere
accolto, ascoltato, di vivere in comunità. C’è gente che paga 140 euro all’ora da un psicanalista per essere ascoltato,
proprio perché nella società non si sente accolto e valorizzato. Per me è
importante costruire comunità con chi è diverso da me per fede o convinzioni.
Nel rispetto delle proprie scelte dobbiamo saperci rapportare fraternamente,
ascoltandoci, aiutandoci.
In questo senso mi sembra di grande valore il fatto
che questo lavoro teatrale venga proposto da Valerio Binasco, un regista di
convinzioni non religiose.
Valerio Binasco
è ateo, ed ha una personalità ricca di spiritualità, un’intensa poetica del
vivere, una contemplazione della vita fuori del comune che, tante volte, non ho
trovato in chi professa una fede religiosa…Cosa vuol dire questo ? Voglio dire
che dobbiamo smettere di farci la lotta, di contrapporti, bianchi contro rossi,
guelfi contro ghibellini. Questa commedia
ci porta a capire che non è positivo divederci, ma ci invita ad unirci anche se siamo di
convinzioni diverse, anche se uno è di convinzioni religiose, e un altro è
ateo: l’importante è come mi rapporto con gli altri e se quello che io faccio
va a beneficio di chi mi sta
accanto indipendentemente dal suo
credo…Se ci riflettiamo, è questo il messaggio più grande e più vero del
cristianesimo.
Nelle 4 foto vediamo Alessio Boni e Alessandro Haber protagonisti della commedia teatrale Il Visitatore
Pasquale Lubrano Lavadera
Nelle 4 foto vediamo Alessio Boni e Alessandro Haber protagonisti della commedia teatrale Il Visitatore
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