Giovanna Cerruti Schiaffino: Costruire un rapporto educativo forte con gli alunni
Come
è nata la passione per l’insegnamento e, poi, per il Metodo Montessori?
In
modo graduale. Fin da bambina mi piaceva giocare alla maestra con mio fratello
e i miei cugini. Non era tanto un gioco in cui esprimere il ruolo di comando,
quanto il desiderio di anticipare l’idea che un giorno sarei diventata maestra.
C’era
una tradizione familiare in tal senso?
No,
nessun insegnante nelle mie due famiglie di origine. Ero attirata dall’idea
della scuola.
Come
affrontò l’esperienza scolastica?
Con
entusiasmo. Fu come continuare il gioco dell’infanzia, cambiava solo il ruolo,
non più maestra ma alunna. Finite le magistrali partecipai al concorso per
l’insegnamento. Lo vinsi e l’incarico arrivò nel 1966, a Genova, in una classe
femminile dove vigevano metodi tradizionali che poco si confacevano alla mia
idea di scuola. La pedagogia aveva fatto passi avanti, ma nelle scuole italiane
si era ancorati a metodi superati. Successivamente mi fu assegnata una classe
maschile e qui nacquero le prime difficoltà nella disciplina. Guardavo le altre
classi maschili, affidate a insegnanti uomini, dove i ragazzi marciavano come
soldatini. Io non ci riuscivo. Chiesi consiglio a un collega che aveva
elaborato un suo personale metodo didattico: fare scuola fuori dalle pareti
scolastiche. Mi invitò a uscire con la sua classe all’aperto, su una collina di
Genova. Ottenute le necessarie autorizzazioni, comprese quelle dei genitori,
sperimentai che si poteva insegnare con poco, in quanto la natura offriva
grandi opportunità. Ma la cosa più significativa fu che il testo nasceva da
queste esperienze, un testo che per quei ragazzi era frutto della loro vita.
Dall’osservazione la conoscenza e dalla conoscenza il testo… un metodo che
affascinava gli alunni ed anche me.
Ci
fu poi l’immissione in ruolo
Entrai
di ruolo nel 1970 e cambio tutto. Erano state introdotte le classi miste e
c’era una programmazione standard. Ciò nonostante trovavo sempre lo spazio di
libertà per uscire da confini preordinati. Ricordo lo stupore dei colleghi quando
realizzai con gli alunni il primo giornalino di classe. Leggevamo tanto.
Tuttavia sentivo che dovevo trovare la mia strada e realizzare quella dimensione
nuova in cui il bambino fosse al centro del processo educativo. Nei miei studi
ero stata colpita dalla figura di Maria Montessori, per cui volli approfondire
questo metodo. Mi misi in aspettativa e frequentai un corso per sei mesi. Ne
uscii trasformata e conquistata.
Cosa
la affascinò?
Prima
di tutto la centralità del bambino, coi suoi tempi e ritmi. Poi l’attenzione ai
processi di autoformazione, un processo collegato alla “mente assorbente” del
bambino. Il bambino capta ciò che vede, ciò che osserva e possiede, ciò che
sperimenta attraverso un processo personale di analisi e sintesi. Perché questo
processo avvenga è necessario applicare tre principi fondamentali: l’ambiente,
il materiale scientifico di sviluppo (sensoriale prima, strutturato dopo), il
maestro. Avevo sempre intuito che se il bambino non sente la mia stima non si
pone in connessione con me. Oppure se lui pensa che il maestro seleziona,
controlla, classifica e punisce, inevitabilmente si crea una distanza con me
insegnante ed è finita. I voti in tal senso costituiscono, nella fase evolutiva
del bambino, un grande pericolo. Il bambino deve vivere con serenità il
processo di apprendimento, nel rispetto del proprio ritmo e mai in competizione
con altri. Si apriva davanti a me una prospettiva grande e decisi di dare il
mio contributo applicando il Metodo Montessori.
Può
dirci qualcosa di più sull’importanza dell’ambiente?
Nessun
processo formativo ed educativo può avvenire in ambienti sciatti, disordinati,
indecorosi, disarmonici e privi di stimoli specifici. Occorre armonia
ambientale, equilibrio persino nella disposizione dei mobili, silenzio, con
stimoli visivi e strumentali affinché il bambino possa sentirsi spinto ad auto-educarsi
in maniera spontanea, in un processo di auto-formazione che non può essere
uguale per tutti. Fondamentale è la consapevolezza che i bisogni vitali dei
bambini, pur della stessa età, possono essere diversi. Da qui la necessità di
mettere a loro disposizione un materiale scientifico, ideato da Maria
Montessori, strutturato in modo da soddisfare interessi e bisogni che nascono
in tempi diversi e si sviluppano in modo diverso anche in bambini che
frequentano la stessa classe.
Ma
questa diversificazione non porta ad una eccessiva confusione in classe?
No,
perché i bambini sono l’uno diverso dall’altro e ciascuno vive nel suo
personale mondo. Usare lo stesso metodo per tutti non sempre funziona. Il
maestro deve porsi come elemento di equilibro e far comprendere che
l’individualità ben vissuta non si scontra con la realtà sociale del gruppo
classe. Un bambino che si dedica ad approfondire un concetto usando un particolare
materiale alla fine, soddisfatto, lo lascia in ordine, perché sa che esso potrà
servire ad altri compagni per soddisfare in tempi diversi gli stessi interessi
e bisogni, in quel processo di conoscenza, autoformazione e autostima che lui
ha appena vissuto.
La
“mente assorbente” è un concetto fondamentale per la Montessori…
La
Montessori parla di mente assorbente attraverso i 5 sensi. Una scuola basata solo
su ascolto ed esercizio mentale con esercitazioni scritte sicuramente realizza
un metodo deficitario. Ci sono ragazzi che si bloccano perché hanno bisogno di
esercitare altri sensi. Il tatto è importantissimo nel processo di
apprendimento così come l’olfatto, l’udito e gli altri sensi.
Si
lavora essenzialmente in classe?
Sì.
Il lavoro a casa è minimo, solo per sistemare un lavoro iniziato in classe o
una ricerca rispetto a un argomento che si vuole approfondire.
Applicando
il Metodo Montessori ha realizzato quel bene relazionale che dovrebbe
costituire l’obiettivo primario di ogni processo educativo?
Il
bene relazionale è intrinseco al Metodo Montessori, ne costituisce la premessa
fondamentale. La corretta relazione e un continuo e rispettoso dialogo tra
maestro e alunno, tra alunno e alunno, è la piattaforma sulla quale si
costruisce ogni processo. Logicamente i bambini arrivano nelle nostre classi da
esperienze diverse, per cui portano dentro realtà diversissime: serenità,
angoscia, conflitto, perdono, lealtà, slealtà… a seconda dell’esperienza da cui
provengono. Le difficoltà in tal senso non mancano. Sta a noi maestri far sperimentare
che si inizia un cammino nuovo, che deve coinvolgerli a tal punto da portare
ogni alunno a desiderare di ritrovarsi ogni giorno insieme con gioia. Se
qualche genitore ci comunica che il bambino non ama venire a scuola, quello è
un campanello di allarme, in quanto significa che qualcosa non sta andando
bene. Ci si interroga e si cerca di individuare le cause: qualche errore
nostro, uno screzio col compagno, una conflittualità forte in famiglia… Se ne
parla insieme e si cerca di ristabilire l’armonia e la serenità. Sempre il
ragazzo al centro di ogni dinamica.
E
per le valutazioni di fine anno?
Mai
voti, ma sempre valutazioni discorsive, dove mettiamo in evidenza il cammino
percorso e le capacità acquisite dal bambino. Sperimentiamo sempre che ogni bambino,
chi prima chi dopo, raggiunge quella maturazione degli obiettivi che ci siamo
prefissi.
Oggi
è in pensione. Un bilancio?
Ho
vissuto un’esperienza ogni giorno sorprendente. La mente del bambino è qualcosa
di grande. Aiutarla ad entrare nella conoscenza è qualcosa che affascina e
commuove. Bene orientato, il bambino sviluppa potenzialità inimmaginabili. Ma
la gioia più grande è aver sperimentato un dialogo e un rapporto forte con i
miei alunni. Ancora oggi molti di loro vengono a trovarmi. Quella relazione di
stima reciproca, fiducia e ricerca comune ha segnato la mia vita e anche la
loro. Sento una profonda gratitudine per quanti, grandi e piccoli, mi sono
stati accanto in questa meravigliosa avventura.
A cura di Pasquale Lubrano Lavadera
da Città Nuova Ottobre 2018
Commenti
Ti voglio sempre bene
Ti voglio sempre bene