Alberta Levi Temin: Finché avrò vita parlerò

Alberta Levi Temin (1919-2016)


   Conoscere Alberta Levi Temin, ebrea, è stato per me un’esperienza indimenticabile che si è incisa nel mio animo generando  riflessioni profonde sul mondo di eri e sul mondo di oggi. Scampata per  miracolo all'accidio del 1945 a Roma da parte dei nazisti e fascisti, ha avuto quasi tutta la sua famiglia uccisa nei campi di concentramento ad Auschwitz. Dal rapporto con lei è nato un libro Alberta Levi Temin - Finché avrò vita parlerò Edizioni L'isola dei ragazzi Napoli 2018, da cui  è tratta questa intervista, che pubblichiamo per onorare la memoria dei milioni di ebrei barbaramente trucidati. 

   Nei primi anni del dopoguerra, tranne che a tuo marito, non hai più voluto tirare fuori quanto avevi tragicamente vissuto. Ma poi è successo qualcosa di importante per cui hai cominciato a raccontare, divenendo così un personaggio pubblico: nterviste in televisione, sui giornali, partecipazione a convegni e ad incontri con gli studenti nelle scuole di ogni ordine e grado.  

   Ci sono necessità storiche, personali che spesso cambiano la nostra vita e il nostro agire. Quando ho sentito parlare di revisionismo storico sulla Shoah, quando qualcuno ha osato dire che lo sterminio degli ebrei  non era che una montatura  sionistica, allora in me c’è stato una scatto di ribellione così forte, che ha determinato il mio uscire allo scoperto con il desiderio di testimoniare la verità. Lo dissi a Fabio mio marito e lui mi capì profondamente e mi ha sempre sostenuta in questa azione.

   Ma sapevi in quale direzione muoverti, a  chi avresti parlato?

   Non sapevo ancora dove e a chi avrei parlato, ma c’era in me la ferma volontà che avrei dovuto farlo al più presto. Avevo, allora, già 67 anni e l’ultimo dei miei figli solo 14 anni. Vivevo a Napoli con la famiglia ed avevo molti amici cattolici. Tra questi c’era Diana Pezzi Borrelli, di 42 anni che insegnava all’Istituto tecnico femminile “Elena di Savoia” e mi coinvolgeva in alcune sue iniziative umanitarie e in esperienze di dialogo tra cristiani ed ebrei. Lei faceva parte del Movimento dei Focolari. Ci volevamo un gran bene, c’era rispetto profondo e condivisione dei valori quali la pace, la giustizia, l’amore per i poveri. Avevo ascoltato alcuni interventi di Chiara Lubich, fondatrice dei Focolari, ed ero rimasta impressionata dalla forza di questa donna che, da cattolica, promuoveva il dialogo con ebrei, musulmani, non credenti, senza voler far proseliti. Per questo lavoravo con Diana con grande serenità, condividendo idee e progetti a favore della pace e del dialogo. Posso dire con gratitudine che senza Diana accanto a me non avrei potuto realizzare quello che poi è venuto dopo.

  Non credo che a livello di chiesa cattolica a Napoli ci fosse già questa grande apertura verso gli ebrei. E ancora oggi penso che ci sia molto da fare.

   Sapevano, entrambe, di dover combattere un nemico grande: il pregiudizio verso gli ebrei che si era insinuato nei secoli nella Chiesa cattolica, tuttavia ci sentivano  pronte ad affrontare questa grande sfida per offrire ai napoletani la testimonianza  di amore concreto tra ebrei e cattolici.
  
  Come avvenne quel suo primo incontro con le studentesse della Scuola Superiore Elena di Savoia?

   Un pomeriggio, dopo aver lavorato insieme fino a tardi,  nel salutarci, chiesi a Diana se potevano ritrovarci il giorno dopo, ma lei disse: “Mi dispiace Alberta, domani non è possibile, perché incontrerò a Napoli, Usci Selig, una donna austriaca ebrea salvata da una badessa napoletana che la nascose nel suo convento. E’ venuta a Napoli perché vuole ringraziare la famiglia della badessa che l’ha salvata. La condurrò  poi nell’Istituto Margherita di Savoia, dove  racconterà la sua storia agli allievi.” Le parole di Diana, di per sé una semplice comunicazione, ebbero in me un effetto dirompente mettendo in moto pensieri e desideri: “Lavoro con Diana e non le mai parlato della mia storia”, al che mi venne spontaneo dirle subito: “Diana, ma anche io ho una storia da raccontare…”, e la mia amica:  “Una storia? Quale storia Alberta? “, “La storia della mia famiglia, che è stata in parte sterminata nei campi di concentramento di Auschwitz e di come io mi sia salvata.”  Nell’ascolto incondizionato di Diana, aprii a lei  il cuore, la mente e le consegnai tutto  il dolore di quel passato doloroso. Un fiume di parole che travolse la mia amica, sorpresa da quella vicenda estrema e di grande sofferenza. Alla fine ci stringemmo in un abbraccio senza proferir parola, e Diana con commozione aggiunse solo: “Questa storia, Alberta, verrai a raccontarla nella mia scuola, alle mie allieve dell’Istituto Tecnico Femminile Elena di Savoia. E’ una storia che tutti devono conoscere.”

  Quale fu la reazione delle ragazze e dei docenti?

   Molto positiva. Qualcosa di totalmente nuovo e imprevisto, per me e anche per loro.  L’incontro con il dolore della Storia e dell’umanità  le portò a considerare ogni forma di attentato alla pace e alla dignità degli esseri umani. Ma anche i docenti presenti furono toccati nel profondo dal conoscere la tragedia della Shoah attraverso la mia diretta testimonianza.

   E da quella volta…

   Da quella volta ci hanno invitato a parlare in moltissime altre scuole, ad alcuni grandi convegni con oltre mille persone e in tante altre circostanze Le richieste fioccavano  senza interruzione per cui dovemmo  stendere mese per mese il nostro programma di interventi. E mio marito Fabio nei giorni in cui era libero era sempre accanto a noi.
  
   In qualche passaggio della tua storia metti in evidenza le diversità che esistono tra cattolici ed ebrei, ma nello stesso tempo affermi che queste diversità non possono costituire motivo di scontro in quanto esse sono una ricchezza: ciascuno può arricchirsi della visione dell’altro. Questo concetto che le diversità non sono fatte per scontrarsi non è molto presente nelle  nostre culture. Lo vediamo nello scontro di civiltà, nello scontro tra Cristianesimo e Islam in questo momento. I ragazzi a cui hai parlato erano pronti a recepire questo valore del dialogo tra le diversità e non lo scontro?

   La scuola dovrebbe fare molto di più in questa direzione, perché oggi nelle scuole dell'Italia ci sono ragazzi che provengono da varie aree culturali. Aiutare questi ragazzi a mettersi in relazione tra loro dovrebbe essere l’obiettivo primario di un programma di formazione. Nel raccontare la mia esperienza ai ragazzi, con accanto Diana che è cattolica, noi abbiamo sempre voluto dare questo segnale di dialogo fraterno da costruire con tutti. E poi raccontando il dolore degli ebrei per la persecuzione subita, noi proponiamo ai ragazzi di rifiutare ogni tipo di discriminazione, sia per la razza, sia per la religione o solo per le idee diverse... Infatti ho fatto conoscere loro sempre la regola d’oro: “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te, non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, presente in tutte le religioni e accolta anche da laici che non hanno un riferimento religioso. L’umanità di domani, quella che tutti sogniamo è una umanità fatta di uomini che si riconoscono fratelli indipendentemente dalla religione, dalla nazione e dalle idee. I ragazzi vanno formati al dialogo, alla pro-socialità, a costruire il bene relazionale.

   Le SS mettevano paura. Hitler ha pigiato l’acceleratore su quella dimensione psicologica  un po’ distorta che può nascere nella mente umana, quella mentalità che spesso porta l’uomo a voler prevalere sugli altri, ad essere migliore degli altri, ad  annientare chi può ridurre il proprio potere. Cosa diceva, infatti, Hitler ai suoi? Se siamo la razza migliore dell’umanità dobbiamo eliminare i parassiti che inquinano la nostra razza. E gli ebrei, considerati parassiti, andavano eliminati. Pura follia, che ha causato milioni di morti innocenti. Oggi purtroppo assistiamo a ragionamenti molti simili che stanno mettendo in pericolo le sorti dell’umanità.

   E’ terribile quello che ascoltiamo  nel telegiornale. E’ terribile. Spesso devo spegnere perché mi riportano a quei momenti drammatici già vissuti. E allora dico al buon Dio: “Forse è il momento che tu mi lasci andare, ho troppo sofferto. Ho vissuto tanto e mi sento serena e pronta a varcare la soglia. Se poi vuoi che io sia ancora qui, lavorerò fino alla fine per il dialogo e la pace fra tutti gli uomini, con una grande gratitudine per tutti quelli, e la maggior parte sono stati uomini e donne di fede cattolica, che mi sono stati accanto ieri nel dramma che abbiamo vissuto come ebrei  e oggi nella normalità della vita.”

   Per me è stato molto confortante sapere che molti tuoi amici  cattolici hanno sentito dentro la loro coscienza che era aberrante quello che stava accadendo con il nazismo e il fascismo,  ed hanno aperto le loro case i loro conventi, i loro istituti per salvare gli ebrei.

   I loro nomi sono scritti a carattere d’oro nella lapide dello Yad Vashem a Gerusalemme con il titolo di “Giusto fra le Nazioni”. Ricordo fra tutti il nome di Don Michele Carlotto che salvò la vita di mio cugino Giovanni e di tanti ebrei.

   Oggi, spesso, con queste masse di immigrati che giungono nelle nostre terre, si sentono nuovamente discorsi  di contrapposizione, di rifiuto, di razze diverse, di violenza tra  persone di diversa cultura, e questo è molto triste.

   Quando nelle scuole mi chiedono un mio parere su quello che si vive oggi io dico sempre ai ragazzi: “Impara a riconoscere il valore di chi è diverso da te per tradizione, cultura. Alcune volte, poi, le parole che usiamo non ci aiutano. E’ per me terribile sentire la parola extra-comunitario. Perché extra? Da dove vengono queste persone? dalla luna o dalle stelle? Sono fratelli nostri, hanno il colore della pelle diversa, una cultura diversa, ma siamo tutti figli dell’unica umanità, siamo tutti figli di Dio. Se qualcuno non crede in Dio è lo stesso, anche lui comprende che facciamo parte dell’unica famiglia umana, anche se siamo nati in posti diversi. L’importante è essere onesti, amare il prossimo come se stesso, questo è il fondamento della mia cultura.”  Questo dico ai ragazzi e mi accorgo che loro sono molti contenti di sentirlo e applaudono convinti.

   Quanto il sapere i tuoi fratelli ebrei torturati e uccisi ha determinato questa tua visione delle cose?

   Molto. Noi ebrei siamo stati perseguitati, abbiamo sofferto. Penso che l’aver sofferto molto mi aiuta a guardare  con amore l’altro diverso da me, perché in tanti momenti quando mi additavano perché diversa dagli altri, quando sono stata allontanata, privata dei miei diritti umani, ho sempre avuto  qualche amico che è diventato ancora più amico C’è stato invece chi  ci ha tolto la sua amicizia...Non avevamo, però, ancora subito e vissuto il dramma nella sua crudezza. Dopo la deportazione dei miei parenti e la loro morte ad Auschwitz,  ho sentito che se la vita mi era stata ridonata io dovevo spenderla per aiutare l’umanità a capire l’orrore della guerra e di ogni discriminazione.

   Hai detto che tuo marito ha condiviso con te questo desiderio di testimoniare la tragedia storica della Shoah. Dicci qualcosa di tuo marito e del vostro rapporto con i figli.

   Non solo lo ha condiviso, ma spesso mi ha aiutato a trovare l’equilibrio quando s’accorgeva di qualche mia esigenza un po’ estrema. Posso affermare che dopo la violenza della guerra e della Shoah, aver incontrato Fabio è stato il dono più grande che ho ricevuto da Dio.
   Lui è stato un marito  pieno d’amore per me e per i nostri figli, che lo adoravano. Lui aveva colto ancor prima di me che il metodo educativo della severità, dell’intransigenza, delle punizioni, del dominio sui figli era un metodo pericoloso  deformante della personalità umana. I figli, mi diceva sempre, vanno accolti nella loro diversità, con i loro caratteri. È la nostra testimonianza che deve aprire i loro occhi, la loro mente, il loro cuore.
   A riguardo voglio raccontare un piccolo episodio che mi sembra indicativo. I miei figli non erano primi della classe ed io qualche  volta ero in apprensione, ma lui no. Gli dicevo: “Ma Fabio non voglio vedere un 5 sulla pagella.” E lui: “Non giudicare negativamente, quel 5, incoraggiali, dai loro fiducia sempre, se vuoi che quel 5 diventi 6.”  Una volta, poi,  mi disse con decisione: “Se proprio vuoi sapere il mio pensiero, ti dico che io non voglio che siano primi della classe, devono sentire il nostro amore per quello che sono, la nostra stima e la nostra fiducia non viene meno se portano a casa qualche voto basso. Questa è l’esperienza che noi dobbiamo loro lasciare.

   E’ stato facile per te condividere questi suoi punti di vista?

   Beh, inizialmente ho dovuto fare un passo, ma Fabio mi aveva detto quelle cose con convinzione profonda per cui ho sentito che c’era un germe di verità in quelle parole e la vita poi mi ha dimostrato che ha avuto ragione lui, perché man mano che crescevano i nostri figli diventavano sempre più responsabili e si rivolgevano al papà quando avevano qualche dubbio, qualche  incertezza sul da farsi. E Fabio orientava, indicava, lasciandoli sempre liberi. Quando a sera tornava a casa, dopo il lavoro di una giornata e i figli sentivano il rumore della chiave nella toppa, lasciavano tutto quello che stavano facendo per corrergli incontro, una scena che è presente in me come se si ripetesse ora. Lui mi diceva sempre: “La stima e la fiducia darà loro sicurezza e sapranno affrontare le difficoltà della vita e non temeranno le diversità, le differenze culturali e sapranno rispettare gli altri, come noi oggi rispettiamo loro.”

   Una visione di grande valenza pedagogica che resta molto attuale oggi in cui sembra venir fuori un discorso in cui si punta nuovamente alla scuola delle eccellenze, alla competizione, ai grandi risultati, ai voti alti.

   Ricordo che Fabio mi diceva sempre: Alberta, niente primi della classe, ma l’esempio, l’onestà, la lealtà, la responsabilità nel lavoro…questo bisogna dare ai figli.”

   Dopo la tragedia  che ha coinvolto e segnato un triste epilogo per molti dei tuoi cari, chi e che cosa ti ha dato la forza di andare avanti, ricominciare una nuova vita in un'altra citta con Fabio tuo marito e i tuoi figli?

    Chi mi ha dato la forza? L’amore per gli zii e i cugini e per tutti gli amici ammazzati nei campi di concentramento, la loro presenza nel mio cuore...Di fronte al suo eroismo generoso ho sentito sempre che dovevo promuovere la vita di tutti, per onorare così la lora vita annientata ad Auschwitz.

   In quei momenti così difficili tu affermi di aver provato anche la disperazione.

   Quando, il giorno successivo alla loro deportazione, mio padre  si recò  in Ministero per sapere notizie dei parenti rinchiusi in caserma, e tornò a casa  a mani vuote, con l’impossibilità di salvarli,  io sperimentai la disperazione, perché mi sentivo in un tunnel senza via di uscita. Ero disperata al pensiero di non poter vedere più mia madre e mia sorella, mio cugino Giorgio e gli amati zii.

   Tua zia Alba per salvare tua madre e tua sorella le spinse a negare la loro appartenenza alla cultura ebraica. Ritieni in coscienza giusto questo gesto.

   Molti fratelli cattolici per salvare la vita di noi ebrei  hanno dichiarato il falso, nascondendoci nelle loro case, nelle loro strutture. Le nostre dichiarazioni di disobbedienza a leggi ingiuste che non ledevano i diritti di nessuno, non privavano qualcuno del necessario, non facevano del male, ma affermavano il diritto alla vita, di fronte ad un infame decreto di morte e di violenza. Non era forse il più grande omicidio togliere la vita a degli innocenti? Non aveva comandato Dio di non uccidere? Ebbene se questa era la verità,  salvare la vita, continuare a vivere, diventava un bene.
   Furono questi pensieri che mi fecero superare la vergogna provata in quegli istanti in cui io mi trovai libera mentre la famiglia veniva deportata, e mi diedero la forza di guardare in avanti, di superare lo strazio del cuore, portando però sempre cara dentro di me la memoria di chi aveva pagato col sangue  e di spendere ogni attimo della mia vita nel dialogo.

   Agli studenti hai detto anche che non bisogna obbedire alle leggi ingiuste, ma sempre ascoltare la voce della propria coscienza, che per il credente è la voce di Dio.

   Ne sono convinta: prima di obbedire ad un ordine devo ascoltare la voce della mia coscienza. Accetto le leggi solo se la mia coscienza  le accetta. Diversamente pratico l’obiezione di coscienza. Quando quei due “poveri” ragazzi tedeschi, aderenti al nazismo,  sono entrati in casa di mia zia a Roma lo hanno fatto per obbedire ad una legge  ingiusta di Hitler. Lo hanno fatto per evitare forse la morte, qualora avessero disobbedito, o forse perché si erano convinti che era giusto applicarla.  Erano giovani, 20-22 anni, e dicevano agli ebrei cose false: che li avrebbero portati nei campi dove c’erano infermerie e invece c’erano le camere a gas e i forni crematori. Ma forse loro neanche lo sapevano ed erano stati formati ed addestrati  ad obbedire ciecamente  ad Hitler e non a seguire la coscienza. Per questo quando incontro gli studenti, dico loro: se viene fuori una legge che la vostra coscienza non accetta, voi non dovete condividere quella legge, ma rispondere a Dio se avete una fede religiosa o, se in voi non c’è convinzione religiosa, alla vostra coscienza.

   Lo vedi attuato intorno a te il dialogo, oggi.

   Non sempre, ma questo mi spinge a viverlo meglio. Tutti i confini del mondo  determinano divisioni. Quando sento parlare di amor di patria, ed io ho sentito l’amor di patria quando mi dicevano che non ero più italiana, oggi più che mai capisco che bisogna avere un amore più grande e come dice Chiara Lubich: “Amare la patria altrui come la propria”. Dobbiamo avere amore per tutta l’umanità. Oggi si dice che tra i musulmani ci sono i terroristi. Io dico che i terroristi ci possono stare dappertutto, tra i cattolici, tra gli ebrei. Ci vuole il dialogo, la comprensione dell’altro diverso da me, il rispetto di tutte le culture religiose, ma anche il rispetto per l’ateo, in quanto facciamo parte dell’unica umanità e pertanto dobbiamo sentirci uguali. Basta ricordare e vivere, come affermavo prima, le regola d’oro: “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te, non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.”Questo è il pensiero che mi ha sorretto in tutta la mia vita e mi ha dato felicità.

a cura di Pasquale Lubrano Lavadera












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