50 anni fa l'Accattone di Pier Paolo Pasolini
Il dato più innovativo e sconcertante dell’esordio cinematografico del poeta e intellettuale Pier Paolo Pasolini sono i personaggi che attraversano i luoghi senza abitarli, senza viverli, come fossero davvero gli sfondi di un dipinto.Questa frontalità, però, richiama anche il cinema muto, fonte d’ispirazione del nuovo regista per sua stessa ammissione.
Il cinema con la sua trasparenza disarmante, e il poeta con in mano una cinepresa che per lui è ancora un mistero, diventano quindi un’alchimia perfetta per l’intellettuale ossessionato dall’incombere della società dei consumi. Che non ha trovato nella politica risposte sufficienti per sé e per gli altri. E che ora vuole lasciarsi andare a una risposta personale tutta poetica, finalmente libero dai vincoli di un’ideologia precostituita.
Il cinema, da questo momento in poi, sarà per Pasolini il territorio franco dove far convivere tutte le sue contraddizioni, e dare ampio sfogo a quella permeabilità di dottrine interiori che sulle pagine dei giornali continuerà a far discutere, scandalizzare, disorientare gli esponenti di ogni parte politica.
Se la società non riesce a riconoscere in quel corpo una persona, Accattone farà in modo di liberarsene per conto proprio. Non a caso, con l’aiuto di un simbolo della modernità. Ruba una motocicletta come l’Antonio di Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948) rubava la più umile delle due ruote. Entrambi falliscono nel loro maldestro, illusorio tentativo di scalare la piramide sociale.
Ma se Antonio veniva graziato in un finale aperto, Accattone trova l’agognata morte in un finale che non potrebbe essere più definitivo.
Nella sua brama febbrile, quasi disperata di vivere, anche a dispetto della difficoltà di trovare un posto nel mondo come i suoi personaggi, Pasolini forse aveva già scorto una nuova risposta per sé e per l’uomo moderno.
Emilio Ranzato
Da Emilio Ranzato , Accattone non muore mai, Osservatore Romano, 28 agosto 2011
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